Spettacolo ispirato alla serie dei Letti di Costantino Nivola
da un’idea di Juri Piroddi
regia: Silvia Cattoi e Juri Piroddi
collaborazione di Ennio Ruffolo
testi liberamente tratti da Julio Cortàzar, Massimo Carlotto e Tibor Fischer
drammaturgia: collettiva
disegno luci: Antonello Testone
colonna sonora: Joe Hisaishi, Serge Reggiani e Chet Baker
con:
Silvia Cattoi
Sergio Cadeddu
Juri Piroddi
Yamina Piroddi
Antonio Sida
«L’idea dello spettacolo mi è nata in seguito ad una visita domenicale al Museo Nivola ad Orani. I suoi Lettini – veri e propri teatri miniaturizzati – hanno scatenato quell’impasto di associazioni-sogni-fantasie che mi sconvolge ogniqualvolta l’idea di un nuovo spettacolo si fa strada in me. Il letto: quell’oggetto-luogo in cui trascorriamo una buona parte della nostra vicenda umana e in cui avvengono le cose più importanti: l’amore, la nascita, il riposo, le letture, le liti, la solitudine, i sogni, le malattie (spesso la morte)… La biografia dello scultore oranese - quel suo ininterrotto spostarsi, sperimentarsi, confrontarsi da vero outsider - ha poi rappresentato il ponte fra la sua opera e il lavoro di questo ensemble di ricerca che mi trovo ad abitare da quando ho fissato le tende nella microsocietà del teatro: Rossolevante.»
Juri Piroddi
Lo spettacolo si compone di 4 azioni sceniche della durata di circa 15/20 minuti ciascuna. Si tratta di una galleria di monologhi e scene a due, finiti e compiuti. Le fil rouge che tiene assieme questi pezzi autonomi è rappresentato dalla situazione scenica in cui i personaggi si trovano ad agire: una stanza chiusa con un letto e pochi altri oggetti di uso quotidiano. Ci troviamo in una pensione di quart’ordine, in una metropoli contemporanea non troppo bene definita, dove i protagonisti vengono colti in un frammento specifico della parabola esistenziale che si trovano a vivere. Ciascuno porta in sé una frattura profonda - una ferita - che li ha convinti in qualche modo a isolarsi, escludendosi da tutto ciò che sta oltre la stanza. Al di fuori c’è una realtà che incombe sopra di loro - una realtà fatta di menzogne, cinismo, sconfitte, ingiustizie, piccole e grandi violenze - ed è terrificante. Ecco perché pensano che non valga più la pena di lottare e hanno deciso di chiudersi la porta alle spalle e di fare a meno del mondo fuori. Più che degli sconfitti sono degli outsiders.
Lo spazio scenico comprende – oltre alla stanza da letto – anche un’area a parte, sospesa: lo spazio del sogno, del desiderio e delle possibilità inespresse. Si tratta di un quadrato bianco di circa quattro metri per quattro, all’interno del quale i personaggi svelano chi e che cosa avrebbero potuto essere se il mondo fuori non li avesse schiacciati, respinti, sviliti, mortificati. È il luogo un po’ magico in cui il fratello nascosto che ciascuno porta in sé può mostrarsi e agire.
I personaggi dello spettacolo:
Oceane. Una donna sola che avrebbe voluto essere una danzatrice ma che non sogna più: «La perdita della sensazione che tutto andrà per il meglio è un segnale che ormai sei cresciuto, o che non ci stai più con la testa? Io non sogno più. O meglio, sì, ma senza convinzione. È come guardare una partita di calcio e non tifare per nessuna delle due squadre, o non conoscere nessuno dei giocatori, e non avere il benché minimo interesse per lo sport: fa passare il tempo, ma non te ne frega niente…».
Liberamente ispirato ad un romanzo di Tibor Fischer.
Un ergastolano, rinchiuso nella sua cella di tre metri per tre che vive le sue giornate sempre uguali, scandite dai ritmi dei pasti, delle conte e dei traffici da galera per una stecca di sigarette. Nel suo “avrei potuto essere” c’è una squallida storia di sesso con una prostituta che, forse, sarebbe potuta diventare qualcosa che assomiglia all’amore. Il pezzo si ispira liberamente al romanzo di Massimo Carlotto L’oscura immensità della morte.
«Domani è martedì. È proprio un giorno del cazzo. Manca ancora troppo al sabato e alla domenica, i migliori in galera. Doccia, colloquio, pasta al forno, fettina e patate e poi il calcio. Una bella botta di calcio. Ho scommesso due stecche di Ms con un serbo. Il Milan perde e io fumo gratis per tutta la settimana. Che si incazzi pure quel cornuto di un medico! Ma come minchia fai a sfangarti la galera senza le sigarette? I detenuti che non fumano qui si contano sulle dita di una mano. E quelli del ministero vorrebbero dividere le celle tra fumatori e non fumatori. Se l’assaggiassero loro la galera, si fumerebbero anche la mamma! »
Un uomo che, prima di uscire dalla sua stanza, ripercorre le fasi del suo “gioco”. Egli, come in un rituale, attraversa la metropolitana di Parigi in cerca di un incontro in cui tutto coincida perfettamente con le regole che ha stabilito nel tentativo di placare i morsi dei ragni che abitano la sua solitudine:
«La mia regola del gioco è maniacale e semplice. Se mi piace una donna, se mi piace una donna seduta di fronte a me vicino al finestrino, se il suo riflesso nel finestrino incrocia lo sguardo col mio riflesso nel finestrino, se lei mi vede sorridere e abbassa la testa e inizia ad esaminare con attenzione la chiusura della sua borsa rossa, allora c’è gioco. Non importa che il sorriso sia corrisposto o ignorato, il primo tempo della cerimonia comincia solo a questo punto. (…) Un sorriso nel vetro del finestrino… e poi il diritto di seguire quella donna. Aspettare disperatamente che la sua linea coincida con quella che io ho deciso prima di ogni viaggio; altrimenti lasciarla andare…»
Una bambina che (ancora) è capace di dormire e sognare. Gli anni dell’infanzia – l’età magica – «l’unica che meriti di essere vissuta», sono un serbatoio di memorie preziose. «Tutto quello che mi è successo in seguito l’ho inventato a quell’età », scriverà da anziano Nivola.
Il tono dello spettacolo varia all’interno di ciascun pezzo, a seconda che ci si trovi nello spazio reale della stanza, intorno o sopra il letto, oppure nel quadrato bianco dell’altro sé, nascosto e irrealizzato; e, ça va sans dire, da un pezzo all’altro.