tratto dal Caligola di Albert Camus
con frammenti da Dostoevskij e Foucault
drammaturgia, spazio scenico e regia: Juri Piroddi
# 1 con:
Cristian Ceresoli [Caligola]
Silvia Mercuriali [Elicone - Drusilla]
Fabrizio Cantaro [Cherea]
Silvia Cattoi [Cesonia]
Giovanni Paolo Buttau [Scipione]
# 2 gli stessi ma con:
Davide Doro [Caligola]
foto di scena: Walter Carreri
Questo lavoro è un adattamento per cinque attori e sei personaggi del Caligula, pièce teatrale-filosofica, scritta e ri-scritta per oltre venti anni da Albert Camus. Un’opera che scuote, un lungo grido d’indignazione contro la morte, la malattia, la miseria e tutte le forme di saggezza o di accettazione. Cosa fare della propria vita, quando il bisogno sconfinato di assoluto non trova risposte, quando si ama il mondo con la forza della disperazione, e con quella paura di perderlo che ne fa emergere ancora di più la bellezza?
Caligola mette in scena un uomo investito del supremo potere terrestre: un imperatore. Egli non può raggiungere l’assoluto, ma vive nell’illusione di poterlo avvicinare. E questa sua sete inesauribile, questa mancanza di risposte – quel margine insormontabile che lo separa dall’impossibile – saranno un rivelatore crudele dell’assurdità della condizione umana.
Caligola non è un pazzo, è un ribelle. Ma la sua rivolta, per essersi fatta contro gli altri esseri umani, si perde in convulsioni. Egli scopre che la libertà pagata a tale prezzo non è quella giusta; esercitando il potere delirante del distruttore, avendo scelto la felicità degli assassini, si trova a vivere una liberazione insopportabile: quella divina chiaroveggenza, quel perfetto isolamento dell’uomo che tiene la vita intera sotto il suo sguardo, lo trascineranno verso una sorta di suicidio dell’intelligenza.
Caligola: (…) È ridicolo pensare che l’amore possa rispondere all’amore. Gli uomini muoiono e non sono felici, tutto qui. E quando è morta, non c’è più. Com’è possibile continuare a vivere con le mani vuote quando prima stringevano l’intera speranza del mondo? Come venirne fuori? Fare un contratto con la propria solitudine? Mettersi d’accordo con la vita, darsi delle ragioni, consolarsi? No, non è per Caligola.
Caligola avrebbe dovuto essere la seconda “giornata” (in sala) di un complesso trittico comprendente Lo straniero (“prima giornata”, in spiaggia) e La caduta – Il mito di Sisifo (“terza giornata”, sul Gennargentu). Di queste ultime due tappe non ne è stato nulla.
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Dell'importanza dei rapporti fra creatività e sofferenza siamo sempre stati convinti. Non tanto nel senso che i capolavori, necessariamente, nascano da un dolore fisico e/o psichico. Quanto, piuttosto, nel senso che l'opera d'arte venga prodotta a partire da un disagio. Il disagio può essere conscio o inconscio. Legato a problemi materiali o immateriali. Può semplicemente essere connesso con la sola esperienza del vivere, cui fatalmente corrisponde quella del morire o meglio del sapere di dover morire. Sempre e comunque dietro l'arte c'è un malessere. Parlo dell'arte autentica naturalmente. Non di quella ruffiana, celebrativa o commerciale più o meno mascherata.
C'è chi questa questione non la capisce o la esorcizza per paura o per stupidità. C'è chi, invece, da questa questione parte non solo per riflettere ma per creare dal nulla o per trasformare quello che già c'è. I primi sono gli artisti veri, i secondi sono i rivoluzionari veri.
Così si è espresso il critico d'arte Roberto Gramiccia (ai suoi scritti devo la scoperta di Caravaggio) in occasione della presentazione di una serie di lavori del giovane Pietro Ruffo, la cui creatività proprio dal disagio trae alimento. Faccio mie queste parole.