Avvicinamenti (2005)

Murielle Béchame, foto di Renaud Mesini

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Perché chiunque rimanga lontano dalla sua Origine
sempre ricerca il tempo in cui vi sarà riunito.

tratto dal Masnavî-yi Ma’navî di Gialâl Ad-Dîn Rumî
il Tadhkîrat al-Awliyâ di Farîd Ad-Dîn al-‘Attâr
e i Racconti di Chassidim di Martin Buber

regia: Juri Piroddi

con: Murielle Béchame, Giovanni Caredda, Silvia Cattoi,
Daniela Evangelista, Juri Piroddi, Carlo “Charlie” Pistis

foto di scena: Silvia Cattoi e Renaud Mesini

Le anime sono discese sulla terra dalla Casa del Padre con una scala, che poi è stata ritirata. Ora di lassù si richiamano in patria le anime. Le une non si muovono dal posto; come si può andare in cielo senza scala? Le altre fanno un salto, ricadono, fanno un altro salto, ricadono di nuovo, e si danno per vinte. Ce ne sono però alcune che sanno bene di non riuscire, ma provano e riprovano ugualmente fino a che il Padre le acchiappa al volo e le tira su. (M. Buber, Storie di Chassidim)

Uno spettacolo “en plein air” e itinerante, costruito a partire da alcuni fra i racconti più affascinanti della mistica islamica (sufismo) che si intrecciano alle storie della tradizione chassidica (ebraismo dell’Europa centro-orientale) e ai canti delle religioni popolari cubane (Santerìa, Regla Espiritista ecc.). Avvicinamenti è anche un percorso di ascolto e apertura agli incanti (colori e suoni) delle bellezze naturali e dei siti di volta in volta scelti e attraversati. Uno spettacolo nato sulle suggestioni “parateatrali” polacche degli anni Settanta e dalla ricerca sulle Performing Arts portata avanti nel “Workcenter of Jerzy Grotowski” di Pontedera.
Data la natura di questo lavoro, le dimensioni e le caratteristiche morfologiche delle aree di volta in volta utilizzate, Avvicinamenti è un’opera fruibile da un insieme limitato di individui-spettatori.


Riferimenti letterari utilizzati per la creazione di Avvicinamenti.

Gialâl Ad-Dîn Rumî – secondo qualcuno il più grande poeta mistico di tutti i tempi – nacque a Balkh, entro i confini dell’odierno Afghanistan, nel Khorâsân storico, nel 1207.
Gli odierni ridicoli nazionalismi fanno sì, dunque, che egli sia conteso fra Afghanistan (ma Gialâl Ad-Dîn non era di etnia afgana), Iran (nella cui lingua sempre poetò), e Turchia, dove morì nel 1273, dopo esserci a lungo vissuto, dove i suoi discendenti si stabilirono, dov’è il centro spirituale della confraternita da lui fondata (quella Mevleviyye, dei dervisci rotanti), e dove è venerato quasi come un santo nazionale. La migliore risposta a queste dispute sciocche la dà egli stesso con questo bel verso:

Dopo la morte, non cercare la mia tomba nella terra:
nel petto degli uomini santi è il mio sepolcro!

Due eventi spirituali furono determinanti nella vita di Gialâl Ad-Dîn. Uno è l’incontro con un misterioso personaggio noto come Shams-i Tabrîz (Il Sole di Tabrîz), il suo maestro, un derviscio vagante. La leggenda racconta in vari modi le circostanze del loro primo incontro (avvenuto probabilmente a Konya nel 1244). Eccone una variante:

Un giorno Gialâl Ad-Dîn era seduto in casa circondato da discepoli e da libri. Shams entrò d’improvviso, lo salutò e, indicando i libri, chiese: “Che cos’è questa roba?” Gialâl Ad-Dîn rispose: “Tu non ne sai nulla!” Ma non appena ebbe pronunciato queste parole i libri presero fuoco e bruciarono. Alla domanda impressionata di Gialâl Ad-Dîn: “Ma che è mai questo?” Shams rispose: “Non ne sai nulla!” e uscì come era entrato, d’improvviso.

Gialâl Ad-Dîn lasciò allora la sua famiglia e partì alla ricerca di Shams. Shams-i Tabrîz fu per Gialâl Ad-Dîn come l’acciarino che fa sprizzar le scintille nascoste in seno alla pietra.
L’altro fatto importante fu la conoscenza, a Damasco, del grande pensatore mistico Ibn al-‘Arabî che, dalla Murcia in Spagna, era venuto a passare gli ultimi anni della sua vita in Siria, dove morì nel 1249.
Le principali opere di Gialâl Ad-Dîn sono due. Una è il Canzoniere, noto come Dîvân-i Shams-i Tabrîz (dal nome del suo maestro), una raccolta di odi di dimensioni impressionanti (racchiude ben 9 volumi in folio).
L’altra è un poema lungo a rime baciate (forma che in persiano si chiama comunemente masnavî) noto come Masnavî-yi Ma’navî (Masnavì spirituale), di più di 26.000 versi doppi, in sei volumi, ciascuno preceduto da una elegante prefazione in prosa araba. Quest’opera, con la sua inesauribile ricchezza di storie, aneddoti e motivi, anche psicologici, e un insospettata profondità e modernità di sviluppi, non appartiene solo all’Islâm ma è di tutte le religioni – se è vero che il campo della mistica è quello in cui esse sono l’una all’altra più vicine. Molte delle storie che usiamo in Avvicinamenti, sono tratte da quest’opera.

Farîd Ad-Dîn al-‘Attâr. Ben poco sappiamo della vita di questo secondo poeta (che con Sanâ’î e Rumî forma la triade dei grandi poeti mistici persiani), neppure la data precisa della sua nascita, avvenuta a Nîshâpur, nell’Iran nord-occidentale, tra la seconda e la quarta decade del secolo XII. La leggenda in compenso si è impadronita di alcuni momenti decisivi della sua esistenza come, ad esempio, l’improvvisa conversione alla Via mistica. A tal proposito si narra che un derviscio, un giorno, sostò dinnanzi alla bottega di al-‘Attâr (che, come dice il nome era figlio di uno speziale) e lo esortò ad abbandonare i beni terreni per seguire la via che porta alla conoscenza. Al-‘Attâr, sprezzante, gli chiese quale possesso avesse in tal modo conseguito e il derviscio rispose: la vita. Al-‘Attâr pretese allora una dimostrazione e il derviscio per tutta risposta si sdraiò a terra e morì. Sconvolto da questa esperienza, al-‘Attâr avrebbe lasciato gli affari per dedicarsi completamente al conseguimento della perfezione spirituale.
Incerte sono anche le circostanze della sua morte, probabilmente avvenuta nella città natale intorno al 1234, in concomitanza con l’invasione mongola. Secondo una curiosa leggenda, un soldato dell’esercito mongolo gli mozzò la testa con un fendente, ma al-‘Attâr imperturbabile la raccolse e se la rimise sul collo: doveva portare a termine un poema e la morte poteva quindi attendere.
Ad al-‘Attâr, autore fra i più prolifici che si conoscano, sono attribuite un centinaio di opere. Citiamo le principali fra quelle sicuramente autentiche: il Divân o Canzoniere; il Khusraw-nâma (Il romanzo di Khusraw); alcuni masnavî mistici (poemi di carattere didascalico in distici a rima baciata), tra i quali ricordiamo: Il libro divino, Il libro dei consigli, Il libro dei segreti, Il libro delle avversità, e il Mantiq at-Tayr (Il linguaggio degli uccelli). Quest’ultimo conobbe vasta fortuna, testimoniata dalla diffusione delle sue redazioni manoscritte in un’area compresa fra l’Asia minore e il subcontinente indiano. Riguardo al Tadhkîrat al-Awliyâ (Memoriale degli intimi di Allâh), da cui abbiamo tratto ispirazione per alcuni racconti ed episodi del nostro spettacolo Avvicinamenti, si tratta di un’opera agiografica contenente le biografie spirituali di settantadue sufi, un testo ricchissimo che condensa l’essenza di tutte le tradizioni scritte e orali sorte intorno alla legge coranica.
La vita e gli insegnamenti dei più grandi maestri dell’”esoterismo” islamico, vissuti fra l’VIII e il X secolo dell’era cristiana, delineano uno dei quadri più completi e vivaci che si possiedano degli ambienti intellettuali musulmani nei primi secoli della civiltà islamica. Un’opera unica nel suo genere che, con il suo linguaggio semplice e spontaneo, è lo strumento ideale per accostarsi all’antica sapienza del sufismo.

Sufismo. "Più di mille anni fa un maestro di Bushanj, nella Persia orientale - chiamato 'Alì il figlio di Ahmad' - si rammaricava che poche persone avessero una qualche idea di cosa fosse il sufismo. 'Oggi', disse, parlando in arabo, 'il sufismo è un nome senza una realtà, mentre una volta era una realtà senza nome'" (William C. Chittick, Il sufismo, Torino, Einaudi). Il sufismo è l’insieme di tutte quelle pratiche e quegli insegnamenti che costituiscono l’”esoterismo” islamico, ossia le dottrine metafisiche e iniziatiche di questa tradizione religiosa. La visione sufi della realtà deriva dal Corano e dalla sunna, ma è stata ampliata e adattata da generazioni di maestri e sapienti. "Essa fornisce una mappa del cosmo che permette di capire la propria situazione nei confronti di Dio e spiega sia cosa sono gli esseri umani, sia cosa essi dovrebbero aspirare a essere. Stabilisce una pratica che può condurre dalla situazione in cui si vive all'obiettivo finale della vita umana, o dall'imperfezione alla perfezione" (William C. Chittick, ibidem). Già dai primissimi tempi sono presenti nell’Islâm tentativi di approfondire la sostanza della nuova religione integrando l’aspetto precettistico e legalitario (sharî’a) con inclinazioni ascetiche e contemplative. Il sufismo venne inizialmente avversato da tutte le correnti teologiche “ortodosse”, a causa della sua esaltazione della virtù dell’amore, posta in primo piano rispetto anche alla valorizzazione dell’obbedienza. Conobbe notevole sviluppo nel IX secolo, soprattutto in Iraq, Egitto e Persia. Il movimento è caratterizzato in origine da una religiosità strettamente ascetica, volta al distacco dal mondo e alla rinuncia. Col passare del tempo a essa si sovrappone la celebrazione dell’amore mistico, esaltato per la prima volta dalla poetessa Râbi’a al-‘Adawîya (donna straordinaria che ricorda, per alcuni versi, la Maria Maddalena del Vangelo).
I sufi non sono coloro che conoscono Dio ma, più propriamente, coloro che conoscono per mezzo di Dio.
Dal XIII secolo acquistarono peso gruppi di asceti riuniti in confraternite simili a ordini religiosi, chiamati in Occidente, a partire dal XVII secolo, dervisci (dal termine persiano che significa mendicante).
Le diverse confraternite (turuq, plurale di tarîqa) non rappresentano differenti “scuole di pensiero”, bensì metodi differenti di un’unica dottrina, secondo il detto per cui le vie verso Allâh sono numerose quanto le anime degli uomini. L’uomo che decidesse di entrare nella Via della conoscenza deve però sapere che l’intraprendere questo cammino non porta con sé la sicurezza di giungere al suo termine. Il sufismo si presenta come la possibilità di un progressus (secondo il senso latino della parola), inteso come avanzamento dalla scorza delle apparenze, l’aspetto esteriore delle cose, al nocciolo, l’intimo della Realtà, il Principio.
Delle oltre cento confraternite nate nell’ambito del sufismo, menzioniamo qui unicamente quella dei Mevleviyye che, come abbiamo scritto sopra, deve la sua origine al poeta Gialâl Ad-Dîn Rumî. Gli appartenenti a quest’ordine, fondato a Konya (Turchia), sono anche detti dervisci danzanti e, tutti i venerdì, eseguono, come esercizio spirituale, danze e musiche rituali finalizzate al raggiungimento dell’estasi (l’unione mistica con Allâh, tauhîd).

Lascia ogni ipocrita astuzia, o amante, diventa pazzo!
Entra nel mezzo del fuoco, diventa falena.
Rendi te stesso straniero, distruggi la casa.
Va, e il petto tuo con neve purissima lava.
E poi, per il vino d’amore, diventa calice.
E se verso gli ebbri vai, vacci da ebbro.
Lascia ogni discorso di lingua,
Diventa muto, diventa muto!

(Adattamento di “Follia sacra”, dal Canzoniere di Gialâl Ad-Dîn Rumî).

Il Chassidismo è il più recente dei movimenti mistico-religiosi sorti nell’ambito della religione ebraica: fondato intorno al 1750 a Miedzyborz (Ucraina) dal rabbino Israel ben Eliezer (1698-1760), chiamato anche Ba’al Sem-Tov (ebraico: signore del buon nome), si diffuse soprattutto nell’area dell’Europa orientale (Polonia, Russia, Romania, Ungheria).
La gioia è una delle caratteristiche della vita chassidica: tutto ciò che procura gioia possiede valore religioso (l’esortazione del Brecht di Contro la seduzione «Lascia la muffa ai santi!» – è un ammonimento proprio di un vero santo, avrebbe detto Martin Buber). La massima espressione della gioia è l’estasi, durante la quale si fa l’esperienza della completa unione con Dio. E’ in questo modo che il devoto (chassid, termine ebraico che significa pio) di ogni condizione può raggiungere il livello di giusto (zaddik, capo della comunità chassidica).
Il pittore Chagall e il filosofo Martin Buber furono fra i più illustri interpreti e divulgatori del Chassidismo.
Martin Buber (Vienna 1878 – Gerusalemme 1965) è l’autore dei Racconti di Chassidim, da noi utilizzati per la creazione di Avvicinamenti.
Come efficacemente scritto da Buber nella sua Prefazione all’opera:

Si sono viste grandi cose, vi si è preso parte, bisogna dirlo, darne testimonianza. La parola che narra è più che semplice parola, essa trasmette effettivamente l’accaduto alle generazioni future, anzi la narrazione è accadimento essa stessa, ha la sacralità di un rito. (…) A un rabbi, il cui nonno era stato un discepolo del Ba’al Sem-Tov, fu chiesto di raccontare una storia. “Una storia” egli disse, “va raccontata in modo che sia essa stessa un aiuto”. E raccontò: “Mio nonno era storpio. Una volta gli chiesero di raccontare una storia del suo maestro. Allora raccontò come il santo Ba’al Sem-Tov solesse saltellare e danzare mentre pregava. Mio nonno si alzò e raccontò, e il racconto lo trasportò tanto che ebbe bisogno di mostrare saltellando e danzando come facesse il maestro. Da quel momento guarì. Così vanno raccontate le storie”.