Il ponte

Corpi come flussi in movimento

Negli anni '70 c'era un'immagine che mi incantava. Era la cover del disco Tapestry di Carole King, datata 1971. Di certo mi piacevano la musica e le parole delle canzoni che ascoltavo e riascoltavo come un mantra, ma soprattutto ero sedotta dalla rappresentazione di Carole King seduta accanto a una finestra, con i lunghi capelli mossi che le scendevano sulle spalle come onde fluenti, appena addomesticati da una riga in mezzo, vestita con un maglione largo (oggi si direbbe over), fatto a mano e indossato a pelle, i blue jeans quotidiani, i piedi nudi, l'aria di chi si sentiva libera di essere se stessa. Un gatto accoccolato sul cuscino si godeva l'atmosfera di questo luogo tanto accogliente quanto privo di formalità. Quasi un interno fiammingo in versione hippy che letteralmente mi stregava perché mostrava alla sedicenne milanese che ero, la seduzione dei mondi anglosassoni di cui mi stavo innamorando. Londra o San Francisco per me significavano la stessa cosa - corpi naturali, non imprigionati, non costretti, ma fluidi, come avrebbe potuto essere anche il mio, bastava che non ascoltassi quello che mi diceva mia madre e la cultura borghese in cui ero cresciuta.

Una delle canzoni dell'album Tapestry era You make me feel like a natural woman (di Aretha Franklin che però nel 1967 la cantava indossando una parrucca e un vestitino luccicante in un look deliziosamente modernista!), quasi un manifesto della costruzione di naturalità che fu l'estetica di molti ragazzi e ragazze dell'epoca. A distanza di decenni, per quanto l'idea di naturalità continui ad avere una presa notevole per la generazione che divenne adulta negli anni '70 in Occidente, l'ingenuità di allora ha lasciato il posto alla consapevolezza che la naturalità è solo uno dei possibili abiti del corpo e che non c'è antitesi tra il corpo della ragazza «acqua e sapone» e quello di una consumata femme fatale, perché il corpo naturale proprio non esiste, essendo noi animali culturali, seppure ci siano tanti modi di intervenire su di esso. 

Il fondamento di ogni intervento che facciamo sul corpo modificandolo o facendo delle aggiunte (tatuaggio o rinoplastica, abito da sera o mantello regale da incoronazione) è quello di «fare umanità», per usare le parole di Francesco Remotti, cioè di rendere conto di quella mancanza, incompletezza, indefinizione che ci caratterizza e ci definisce in quanto esseri umani e su cui continuiamo a intervenire simbolicamente e materialmente. Remotti propone una classificazione che inquadra i diversi interventi sul corpo, intesi come attività antropoietiche. Ne individua quattordici, con l'avvertenza che un atteggiamento più sintetico o più analitico potrebbe far variare il numero, ma non la sostanza di questa tassonomia il cui scopo è quello di rendere conto dell'impegno che le persone mettono nel modificarsi. Cioè di trasformare un indifferenziato naturale in uno specifico culturale, dunque umano.

Dalla prima categoria che consiste nella semplice costruzione di oggetti da mettere sul corpo temporaneamente (capi di abbigliamento, ma anche monili e maschere) fino alla quarta categoria che consiste nel modellare peli, capelli e unghie, siamo nel campo della reversibilità. Cioè si tratta, secondo Remotti, di agire nello spazio intorno al corpo, ma non definitivamente sul corpo.

Dalla quinta categoria, in cui troviamo inserite pratiche come il body building e il massaggio e poi soprattutto dalla sesta categoria, 'crani schiacciati, piedi ridotti, colli allungati' entriamo nell'ambito della irreversibilità degli interventi, sempre più definitivi, spesso anche molto dolorosi, fino alla quattordicesima e ultima categoria in cui troviamo il cosiddetto 'trattamento del cadavere'. La pratica, universalmente diffusa, ha lo scopo di cercare di sottrarre il corpo al disfacimento, cioè al suo ritorno al regime della natura. Il trattamento del cadavere indica la fondamentale importanza che gli esseri umani attribuiscono all'affermazione di un proprio stile di umanità, finanche dopo la morte.

Per questo è difficile prendere una posizione, come sembra richiedere il discorso comune stereotipato, a favore o contro la chirurgia estetica, quasi che si possa opporre un modo «naturale» di essere al mondo - e di invecchiare e di morire - contro un modo artificiale, costruito, e implicitamente pensando che ci sia, nella seconda eventualità, anche una disdicevole non accettazione di noi stessi.

È vero che la costruzione di naturalità o meglio, la naturalezza dell'apparenza, opposta alla sofisticazione della medesima, specie per la donna, ha accompagnato periodi di apertura e opposizione a ideologie patriarcali. Si pensi al «piedino di loto cinese», pratica che si dissolve dopo secoli, con la fine delle dinastie imperiali e la fondazione della prima repubblica cinese nel 1911 e all'abolizione del busto in Europa più o meno nello stesso periodo, con tutte le promesse femministe del Novecento. Ne dovremmo dedurre che viviamo in un'epoca molto oppressiva, data la massiccia dose di modificazioni che accettiamo o ricerchiamo. Tuttavia il discorso è più complesso e le pratiche di chirurgia estetica ci pongono di fronte a interrogativi cui è difficile dare una risposta onnicomprensiva.

Come già il femminismo degli anni '80 ha mostrato che la moda non ha come unico scopo quello di opprimere la donna, ora è il turno di comprendere il senso di pratiche di chirurgia estetica sempre più diffuse per uomini e per donne. Nella nostra cultura il fenomeno degli interventi sul corpo si può dividersi sostanzialmente in due grandi filoni.

Da un lato c'è l'intervento mirato a «bloccare» il tempo e cioè a prolungare l'estetica della giovinezza. L'età media si è allungata e come si combatte l'osteoporosi che impedisce una vecchiaia di autonomia, allo stesso modo le persone cercano, soprattutto le donne, di assicurarsi un aspetto di efficienza, funzionalità, benessere, attrattiva sessuale. Si va dai cosiddetti «ritocchini» alla plastica vera e propria, ma di rado le pratiche di ricostruzione di giovinezza implicano l'invenzione di un corpo «nuovo». Il fulcro degli interventi è il viso, mentre alle pratiche più dolci come i vari tipi di ginnastica è affidato il corpo.

Dall'altro c'è il ricorso in età sempre più giovane a desiderare di modificare il proprio aspetto. Il fulcro è più spesso il corpo, dalla costruzione dei muscoli al tatuaggio, che non il viso. In questo ambito la protesi per il seno è la pratica più richiesta dalle ragazze ai propri genitori come regalo o come auto-regalo in caso di raggiunta autonomia economica. «Mi sono regalata due taglie in più» è ciò che spesso riportano i giornali citando le parole di ragazze che ambiscono a trovare un posto nel mondo dello spettacolo.

Come indica la ricerca di Rossella Ghigi che sarà presentata domani in occasione dei «Dialoghi sull'uomo» di Pistoia, è opportuno dunque domandarsi quali idealtipi e dunque quali aspettative stiano alla base del desiderio di intervento chirurgico estetico presso i più giovani, come si inserisca nel loro diventare adulti il desiderio, talvolta realizzato, più spesso sognato, di un corpo nuovo. I dati di diverse ricerche condotte da Ghigi su campioni rappresentativi dell'universo giovanile italiano sembrano mostrare una familiarità crescente con l'uso della chirurgia più reinventiva che migliorativa - a riprova di come gli interventi mirati a raggiungere un ideale di bellezza, in realtà poco praticati a quell'età (15-24 anni), siano una forma di immaginazione del sé di tipo proiettivo, ma anche un elemento che si delinea come fortemente caratterizzante le nuove individualità post-televisive.

Dai dati appare più alta la percentuale favorevole all'intervento chirurgico estetico di chi già ha piercing o tatuaggi, a dimostrazione di uno stato di variazione permanente del corpo dei più giovani definito per questo dai sociologi un «corpo flusso», «un corpo nomadico che non ha confini né identità fisse», ma è pronto ad assumere nuove forme in costante evoluzione. In ciò sta probabilmente una delle differenze tra ieri e oggi. Caratterizza i giovani una (apparente) contraddizione tra il sottoporsi a cambiamenti irreversibili, pronti tuttavia a essere modificati nell'inseguimento di ideali estetici sempre meno codificati.

Il rischio di un' estrema libertà di intervento sta, forse, nella perdita del senso complessivo dell'immagine corporea. L'unità della persona, come noto, non è mai la risultante della somma delle parti. I tanti pezzi assemblati non fanno un corpo, ma possono creare un Frankestein.

Scritto da Simona Segre Reinach sul manifesto del 27-05-2011

 



Scritto da Simona Segre Reinach| Articolo postato il 28-05-2011
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