Le due mostre romane, quella dedicata a Giotto al Complesso del Vittoriano (aperta fino al 29 giugno) e quella dedicata al Beato Angelico ai Musei Capitolini (aperta fino al 5 luglio) vanno assolutamente visitate. E a visitarle non devono essere solo gli addetti ai lavori o gli esponenti del cosiddetto “ceto medio riflessivo”, come si usa dire oggi. Queste esposizioni, direi queste meraviglie, andrebbero ammirate da tutti. Anzi, andrebbero ammirate soprattutto da chi è più esposto agli effetti narcotizzanti dei fumi televisivi che anestetizzano le coscienze critiche, morali ed estetiche di milioni di vittime largamente incolpevoli.
Uno dei tanti errori che ha commesso la Sinistra (finché è esistita come forza significativa, diversificata ma riconoscibile) è stato quello di ostinarsi a non capire che esercitare una opposizione efficace al blocco sociale dominante significa anche mettere in discussione ciò che questo blocco tiene unito, che non è solo un groviglio di interessi legali e illegali ma è anche una serie di elementi sovrastrutturali che, nel loro insieme, costituiscono il senso comune dominante. Ebbene, per l’attuale senso comune dominante, soprattutto nella sua versione giovanile o giovanilista, ammirare dei capolavori dell’arte italiana del Trecento e del Quattrocento non ha alcun senso. Badate bene: non è solo palloso, proprio ‘non ha senso’. E’ su questo che vorremmo attirare l’attenzione piuttosto che discettare (tanti altri lo hanno fatto benissimo e da secoli) sul valore dell’opera di questi due enormi autori.
Giorni fa, ci è capitato di assistere in televisione a uno spettacolo desolante quanto (purtroppo) prevedibile: alcuni studenti universitari intervistati allo scopo di testare la loro culturale generale (anzi generica) confondevano il delitto Moro con fatti di mafia e stentavano a ricordare il nome del Presidente della Repubblica. Che cosa volete che interessi a questi giovani di Giotto e di Beato Angelico?
Ci si obietterà che i giovani non sono tutti così. Ci mancherebbe altro. Lo sappiamo. Tuttavia è fondato il timore che quegli studenti intervistati, piuttosto che l’eccezione, rappresentino la regola. Una regola tristissima che testimonia della natura di quel “pensiero unico” di cui giovani e meno giovani sono affetti. Sì, perché ci si ammala non solo di influenza suina ed avaria, ci si ammala anche quando una concezione del mondo supersemplificata e banalizzante si impadronisce di noi fino a renderci incapaci di qualsiasi interpretazione, anzi di qualsiasi osservazione e memoria che preluda ad una qualche possibile interpretazione. Sono queste le vere radici del “velinismo”, del successo dei reality, delle idiozie di massa negli stadi, così come dei cedimenti irrazionalistici, squadristici, xenofobi o nel migliore dei casi vigorosamente apolitici o antipolitici.
Ecco perché, oggi più che in qualsiasi altro momento storico, gettare un fascio di luce sulla storia della nostra cultura, in questo caso della nostra cultura estetica, è oggettivamente un’ operazione di resistenza attiva nei confronti del pensiero unico. Una resistenza che adombra un altro modo di concepire la vita e il mondo. Un modo capace ancora di prestare attenzione, di esprimere curiosità e voglia di conoscenza. E badate queste cose qui vengono prima di ogni coscienza di classe. Se uno non ha coscienza, non può avere coscienza di classe.
Non importa se la mostra di Giotto e del Beato Angelico, oltre all’immenso talento di questo due straordinari autori che traghettarono la pittura italiana dal Medioevo al Rinascimento, è anche una testimonianza tangibile del potere della chiesa e della religione. Anzi è un bene che questo legame sia visibile perché esso dimostra che l’arte non nasce (non è mai nata) fra le nuvole, ma nel vivo e dal vivo delle condizioni storiche che l’hanno prodotta. Certo l’influenza esercitata da singoli artisti nel piegare le condizioni storiche (piuttosto che farsene piegare) verso determinati indirizzi è fondamentale. E anche questa sarà manifesta se osserverete i capolavori presentati in queste due esposizioni.
Sarà chiaro e commovente il percorso di Giotto che, nel Trecento, da Cimabue (suo maestro) va verso Masaccio, superando le astrattezze ieratiche del gotico bizantino per dare corpo volume e sostanza alla vita individuale e a quella pubblica religiosa e non. Come sarà illuminato e illuminante il percorso di Beato Angelico che, nel Quattrocento, a partire dall’Umanesimo di Masaccio si fa, come diceva Elsa Morante “propagandista del paradiso”, inondando di azzurro e di luce le scene di una spiritualità umanissima e dolcissima.
Riflettevamo sul fatto che la dolcezza infinita di Beato Angelico in tempi durissimi e sanguinosi, come sono stati quelli di passaggio dal Medioevo alla società comunale, deve avere suscitato, per contrasto, emozioni travolgenti esercitando oggettivamente un potere di seduzione morale irresistibile. Oggi resta il suo valore estetico immortale. Se ‘entri’ in uno di quei dipinti e lo capisci, ti assale il disgusto per la volgarità. E questa cosa è sana anzi, vogliamo esagerare, è rivoluzionaria. Perché qualsiasi progetto di trasformazione della realtà basato su una prospettiva di giustizia e di liberazione parte non solo da uno stato di bisogno ma dal disgusto del “brutto” dell’ingiustizia, della sua volgarità. Ed è solo conoscendo il bello che si ri-conosce il brutto.
Oggi è difficile provare disgusto perché quasi ogni cosa è diventata opaca e indifferente. E’ per questo che è nostro preciso dovere parlare di Giotto e Beato Angelico: per tentare di recuperare una possibile scala di valori che dalla distinzione del bello dall’osceno possa condurre a prese di coscienza più complessive, possa adombrare i lineamenti di una nuova egemonia possibile, di un nuovo e diverso senso comune.
Di giovani, transitando nelle sale dei due musei fra i tanti capolavori esposti dei due autori e dei loro compagni di scuola, non ne abbiamo incontrati molti. Non c’era una gran fila a fare i biglietti. Noi la sogniamo quella fila e vorremmo che quelle sale fossero piene di ragazzi e di ragazze. Non solo per amore dell’arte, evidentemente, ma per un’aspirazione più ambiziosa e temeraria: quella di riprendere la strada verso un mondo nuovo. Magari partendo da Giotto.
di Roberto Gramiccia
del 15/05/2009