Non sono battezzato, nemmeno i miei figli lo sono, non vado in chiesa, non addobbo la casa per le feste di Natale, ma nel mio immaginario quello che mi viene in mente del presepe è proprio ciò che ho visto nella Natività di Aldo Sicurella. Sbaglierebbe chi cercasse di guardare quest’opera prodotta dal Teatro Instabile di Paulilatino come uno spettacolo teatrale. Secondo me Aldo Sicurella ha fatto sapiente uso dei diversi mezzi che le arti performative mettono a nostra disposizione - canto, musica, mimica, danza, luci, costumi, scenografia – per costruire un evento emozionante che non coincide sic et simpliciter con ciò che comunemente chiamiamo spettacolo. Egli ha piuttosto cercato di dare fisicità all’atto fondante della cristianità – secondo solamente alla morte in Croce – la venuta al mondo del re bambino: Dio che si fa carne al fine di assumere su di sé completamente il destino umano. Natività visualizza questa straordinaria epifania (dal greco επιφÜνεια, epifaneia, che significa manifestazione della divinità, un concetto tipico di molte religioni), e lo fa impiegando un linguaggio semplice e immediato, che si inserisce perfettamente nella millenaria tradizione italiana del presepe.
Una tradizione che affonda le proprie radici in riti e credenze molto antichi, precristiani, addirittura. Nella cultura etrusca e latina gli antenati defunti - i larii per i romani - vegliavano sul buon andamento della famiglia. Ogni antenato veniva rappresentato con una statuetta, di terracotta o di cera, chiamata sigillum (da signum, cioè segno, immagine). Le statuette venivano collocate in apposite nicchie e, in particolari occasioni, onorate con l'accensione di una fiammella. Il 20 dicembre si svolgeva la festa detta Sigillaria durante la quale i parenti si scambiavano in dono i sigilla dei familiari defunti durante l'anno. Il compito dei bimbi delle famiglie riunite nella casa patriarcale, era di lucidare le statuette e disporle, secondo la loro fantasia, in un ambiente bucolico in miniatura. Dinnanzi al presepe, la famiglia si riuniva per invocare la protezione degli avi e lasciare ciotole con cibo e vino. Il giorno dopo, al posto delle ciotole, i bambini trovavano giocattoli e dolciumi, portati dai loro antenati.
Questo deve essere il presepe. Non ho mai sopportato le innovazioni post-moderne sul presepe. Tutt’al più potrei accettare una provocazione, dolorosa come un pugno nello stomaco, ma non una operazione modaiola di restyling… Ad esempio, se mi venisse chiesto di allestire un presepe, probabilmente preparerei una vera stalla, con veri animali e veri escrementi puzzolenti. Dio si è fatto uomo ma non ha scelto di nascere fra gli agi, si è fatto uomo povero. E qui si aprirebbe tutta una voragine di considerazioni di ordine teologico, filosofico e sociale sull’essere povero…
Quello che mi ha colpito di più nella Natività di Aldo Sicurella è che Gesù è lì, vicino a tutti gli altri personaggi, in mezzo a loro e alle loro attività quotidiane. All’apertura del sipario ho pensato che la capanna - con la mangiatoia e tutto il resto - avrebbe potuto essere sistemata più in alto, rialzata, così da essere meglio visibile. Ma poi mi sono reso conto di no, il posto del bambinello è proprio lì, in mezzo a tutti gli altri.
C’è poi una dimensione di crudeltà nel presepe - a cui non avevo mai fatto caso prima. Ed è che le statuine (viventi, nel caso della Natività di Paulilatino) rimangono per sempre legate alla loro specifica attività, imprigionate ab aeterno in quell’unico gesto: il pastorello che munge, la ragazza che attinge acqua alla fonte, il fabbro che solleva il maglio sull’incudine, il pescatore che tira su la rete ecc. Persino Maria e Giuseppe sono eternamente connessi all’atto di accudire Gesù bambino.
Soltanto che, sul palcoscenico del Teatro Grazia Deledda, ad un certo punto i vari personaggi cominciano a recare i loro doni al re bambino, gli si fanno attorno, lo stringono in un abbraccio collettivo e l’atmosfera si trasforma, producendo un calore nuovo, una luce nuova, viva. Da quel momento in poi si materializza la loro liberazione. Che non è semplicemente un liberarsi dalle pene dell’esistenza pratica ma è un riposo: l’abbandonarsi a una contemplazione che - per me testimone - è l’andare oltre il quotidiano vivere per attingere a stati più profondi di consapevolezza. Magico.