- Quando è nato il vostro gruppo?
Rossolevante nasce nel dicembre del 2002 in occasione della messinscena del Caligola di Camus, anche se il nucleo originario dell’equipe risale ai primi anni ’90 (col nome di Manas Théatron prima - diretto da Gianni Cardillo - e di Teatro Anatomico poi, entrambi attivi a Bologna).
- Chi è il fondatore e quali erano gli attori?
I fondatori sono Juri Piroddi e Silvia Cattoi, entrambi attori e registi. La prima equipe comprendeva anche gli attori: Fabrizio Cantaro (Caserta), Silvia Mercuriali (Milano) e Cristian Ceresoli (Bergamo).
- Quali esigenze vi hanno spinto a fare teatro? Che cosa significava per voi recitare?
Si trattava di urgenze esistenziali: quelle di vivere in modo diverso dai “borghesi”. Per noi – in origine – fare teatro significava innanzitutto appartenere ad un gruppo, condividere un percorso di ricerca, aderire ad una microsocietà che – ingenuamente – supponevamo si reggesse su principi diversi rispetto alla società esterna. Come una sorta di Laputa, l’isola volante, dove valgono leggi particolari, dissimili da quelle del mondo. In questa fase i nostri punti di riferimento erano le sperimentazioni teatrali degli anni ’60 e ’70: l’Odin Teatret e il cosiddetto “Terzo Teatro” , il Living Theatre, Grotowski (anche e soprattutto le sue esperienze “Parateatrali”). La nostra poetica è stata fortemente segnata da questi riferimenti imprescindibili. Ecco perché – per anni – non abbiamo mai usato la parola “recitare”, che ci sapeva di fasullo. Usavamo (ed in parte usiamo ancora) un altro gergo operativo, per cui diciamo “lavorare”, “fare teatro”, “agire” ecc. Ecco, fare teatro per noi significava agire, fare esperienza del mondo, imparare, conoscere, crescere.
- Che tipo di teatro proponevate quando avete incominciato, e quali testi drammaturgici avete messo in scena?
In parte valga la risposta data al quesito precedente. Posso aggiungere che dopo questa lunga fase (che ha coinciso in buona sostanza con gli anni dell’apprendistato e degli studi universitari) sono arrivati altri incontri, altre esperienze: il teatro di Leo De Berardinis, quello di Pippo Delbono e Pepe Robledo, il teatro da camera di François Kahn, le narrazioni di Marco Baliani, la poesia di Danio Manfredini. E poi le esperienze basilari per la nostra formazione: la danza di Roberto Castello per Silvia e le Azioni al “Workcenter of Jerzy Grotowski” per me.
Il primo testo messo in scena come Rossolevante è stato Caligola di Camus (con interferenze da Dostoevskij e Foucault), poi è arrivato Pinter col Calapranzi (in una traduzione mia), quindi Brecht (con un lavoro sulle sue liriche), poi Rumi e Attar (Avvicinamenti) e Niccolini con Via Crucis...
- Che cosa vi aspettavate dal teatro e cosa siete riusciti ad ottenere?
Per noi il teatro si identificava in toto con “l’extraquotidiano”, e lì ci aspettavamo di vivere una vita “autentica”, al di là delle ipocrisie, delle meschinità, delle bassezze ecc. della vita quotidiana ma ci siamo resi conto che in quella che più in alto ho chiamato la “microsocietà del teatro” si ritrovano (talvolta in sedicesimi) le stesse identiche schifosissime dinamiche di quel mondo che non ci piaceva e che – in parte – rifiutavamo. Con un’aggravante: quella della competitività sfrenata, dell’arrivismo, dell’esibizionismo e del maledettismo, mascherati con tanta ipocrita ideologia. Quei bei paroloni che nascondono la fregatura. E poi la maledetta questione economica che frena qualunque possibilità di vera collaborazione fra le compagnie di teatro. Perché ogni progetto condiviso nasce e muore intorno alla necessità stringente (il ricatto, diciamolo) di far quadrare i conti. Solo che per qualcuno questo significa ingrassare, per qualcun altro sopravvivere.
- Quanti spettacoli avete realizzato?
Una quindicina di titoli circa.
- Chi sono stati i registi?
Juri Piroddi, Silvia Cattoi, Sergio Cadeddu.
- Quali spazi scenici avete utilizzato per i vostri spettacoli?
Abbiamo lavorato ovunque. Dai boschi alle spiagge. Dai teatrini ai teatroni. Dalle sale fredde e male illuminate ai teatri pieni di confort. Dalle aule scolastiche alle galere, agli ospedali. Dalle fabbriche alle Aule Consiliari monumentali di Roma e Cagliari.
- E in quali spazi agite oggi?
Proviamo abitualmente al Teatro San Francesco di Tortolì. Ma non ci spaventa frequentare palestre, cortili, parchi, spiagge a seconda delle necessità. Perché non ci si può fermare. E perché ogni luogo attraversato dal teatro rivela tue le sue nascoste potenzialità.
- Che cosa significa fare teatro oggi?
Correre. Correre e combattere (soprattutto contro la burocratjia e l’assenza di una classe dirigente degna di questo nome). E di conseguenza: pochissimo tempo per riflettere, per condividere le esperienze, per analizzare quello che si sta facendo (e magari contribuire a rendere questo pianeta meno disgustoso).
- Com’è cambiato lo spettacolo in questi anni?
Non lo so. Posso solo abbozzare una considerazione: da 50 anni viviamo in quella che Guy Debord (con una formula azzeccata ma abusata) ha definito la «Società dello spettacolo»: tutto è ridotto a spettacolo, a recita della vita («Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra individui, mediato dalle immagini», immagini del mondo dettate dalle necessità del capitalismo, beninteso, staccate dalla vita; e ancora: «Tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un'immensa accumulazione di spettacoli»; lo spettacolo come merce e la merce come spettacolo…). Certe volte ho l’impressione che in teatro ci si limiti molto semplicemente a proporre spettacoli al quadrato. Laddove, per riprendere l’utopica visione di quel pazzo di Artaud, il teatro dovrebbe indicare una via d’uscita: verso la vita vera. Contro una realtà finta, una finzione vera, insomma. Ma qui entriamo in un territorio minato e i discorsi rischiano di farsi fumosi, sarebbe necessario approfondire l’analisi e non mi pare questa la sede.
- Quali testi si rappresentano oggi e perché?
Quali testi si rappresentano, forse non ha molta importanza. Il testo – diceva Grotowski – è un trampolino. Ciò che conta è il volo. Nella sua fase strettamente teatrale, il regista polacco amava confrontarsi con gli autori del romanticismo della sua terra, per ingaggiare con loro una specie di corpo a corpo. Nel tentativo di strappare all’Angelo il suo segreto.
La questione del “perché” è quella che mi interessa maggiormente. Mi pare chiaro che le compagnie del giro grosso, quelle del teatro che una volta veniva detto «borghese», la «prosa», puntano sui soliti nomi (Pirandello, Goldoni, Shakespeare, Moliere…) per inerzia, pigrizia e piatta convenienza economica. Così come puntano sui nomi televisivi per vendere più biglietti (e per accontentare gli assessori alla “cultura” che calcherebbero – se potessero e, quando possono, lo fanno – in prima persona i palcoscenici). Ma qui siamo senza la minima speranza. La questione del “perché” si fa più drammatica quando anche le scelte delle compagnie più giovani sono dettate da calcoli di piccolo cabotaggio. Fare teatro, al di là delle poetiche e dei linguaggi, dovrebbe nascere da una necessità profonda, da un bisogno autentico, da una ferita. E - soprattutto quando si è giovani - dalla voglia di rivoltare il mondo come un calzino.
Ancora una cosa: anche in teatro ci sono le «mode culturali» (come le chiamava Geymonat). Le scelte dettate dall’aria che tira.
- Com’è cambiato il rapporto con il pubblico e quanto i gusti del pubblico hanno condizionato le vostre scelte?
«Bisogna guarire del giudizio degli altri» (René Daumal). È logico che fare spettacoli che riscontrano il gradimento dei fruitori fa piacere ma noi non lavoriamo per questo. Non abbiamo la smania di piacere. Non è questo che ci fa sudare.
- Che cosa ha significato ieri e cosa significa oggi essere un attore in Sardegna?
«In Sardegna», non so. So che l’attore – ovunque si trovi – è (dovrebbe essere) un lavoratore specializzato. Con la consapevolezza di svolgere una specie di missione. Talvolta con dolcezza, talaltra con energica determinazione.
- Chi sono gli autori di teatro sardo le cui opere avete portato in scena?
Non abbiamo mai portato in scena un autore sardo. Qualche volta c’è capitato di usare frammenti di scrittori sardi per i laboratori teatrali con i ragazzi. E allora abbiamo attraversato le opere di Gramsci, Fois, Bandinu, Atzeni, Murgia.
- Che rapporto esiste tra i gruppi teatrali?
Quando ci sono (e non ci si ignora molto semplicemente), si tratta quasi esclusivamente di rapporti: a) di reciproca convenienza; b) di aperta ostilità. Si dà: o il ricatto degli scambi (le alleanze) o la guerra aperta per il controllo del territorio (degli spazi, delle sovvenzioni ecc.). C’è poi anche una questione di stile, per cui ci sono quelli particolarmente bravi e delicati nel portare avanti i “commerci”, e quelli brutali e grezzi. Ci sono quelli che combattono in terreno aperto, mettendo in campo i loro pregi e buone qualità (le competenze obiettive, artistiche e organizzative) e quelli che scelgono l’intrallazzo, l’imbroglio, le manfrine, gli atteggiamenti para-mafiosi.
I rapporti limpidi sono in netta minoranza.
- Qual è il rapporto tra il teatro e i mass - media?
Faccenda spinosissima, visto come sono ridotte le gazzette locali (e le loro pagine “culturali”), e le televisioni… Quando poi chi dispone di una voce, di uno statuto mediatico, anche piccolo, è interno a certi meccanismi di potere, si raggiunge lo scandalo assoluto.
C’è poi la questione dei territori marginali, come l’Ogliastra. Le pagine regionali dei quotidiani sardi dànno ampio rilievo a tutto ciò che passa a Cagliari e (in misura molto minore) a Sassari. Ma pochissimo spazio è riservato a quello che accade in provincia (sempre che non siano i “cagliaritani” a traslocare nei territori “minori”). I “critici” non si spostano e non sono curiosi (salvo rarissime eccezioni).
Sono troppo pessimista? Mi sto tenendo, piuttosto.
- Qual è il rapporto tra il teatro e la scuola?
Terrificante, quando gli insegnanti si improvvisano registi! Oppure quando, con l’alibi de sa limba sarda e dell’identità* (ma di che?!), si mettono in piedi spettacoli generalmente vergognosi.
*(il 99% dei discorsi e delle pratiche legate alla cosiddetta identità sarda sono stronzate galattiche. Purtroppo. Per il classico piatto di lenticchie siamo disposti a tutto, noi sardi, pure a fare i buffoni intorno ai nuraghi, quando ci pare conveniente).
- Nel proporre e nel fare teatro quali differenze avete riscontrato nel paese e nella città?
Talvolta mi è capitato di pensare: Cristo si è fermato a Eboli.
- Ritenete sia importante istituire una scuola di teatro in Sardegna?
Non so. In Sardegna non ci sono già tante scuole di teatro… ?
- Che cosa ha significato la proposta di un circuito di teatro nazionale in Sardegna?
Non so. Cos’è esattamente il “circuito di teatro nazionale in Sardegna”?
- Si può parlare di teatro sardo e che cosa significa?
Non saprei. Forse no. Ci sono compagnie che hanno sede operativa in Sardegna e quindi condividono uno stesso spazio geografico e politico, con tutte le conseguenze del caso (uguale legislazione regionale, medesime difficoltà per attraversare il mare che le separa dal Continente…).
- Quali sono i maggiori esponenti?
Non lo so.
- Quali requisiti occorrono per diventare attori?
Determinazione, autoironia, costanza, sensibilità, capacità di osservazione.
- Attori si nasce o si diventa, quale percorso consigliereste a un giovane artista?
Si diventa. In generale credo che la spontaneità sia il punto d’arrivo e non il punto di partenza.
- Per recitare i testi teatrali è necessario averli studiati? Qual è o quale dovrebbe essere il patrimonio culturale di un attore?
Dipende dalla personalità dell’attore e dal tipo di testo che si sta mettendo in scena (o meglio del progetto nel quale si è impegnati, visto che non è detto che uno spettacolo nasca a partire da un testo o che contenga dei testi). In certi casi un approccio intellettuale potrebbe bloccare l’attore (o fornirgli degli alibi: egli crede di avere capito ed espone anziché agire); in altri casi l’analisi del testo (e del contesto) può risultare determinante. Ci sono poi fasi diverse nella creazione di uno spettacolo e nella preparazione di una parte. Dipende. Non ci sono leggi valide sempre e per chiunque. La nostra formazione (mia e di Silvia) è quella dell’attore-autore, per cui il nostro approccio al teatro è totale - ma questa non è l’unico cammino percorribile.
Il teatro per me è un percorso di conoscenza, per cui alla fine di un progetto ne voglio sapere di più (su me stesso, il mio mestiere, i miei compagni, il mondo) rispetto a quando son partito.
- Mancano più gli attori, i registi o gli autori di teatro in Sardegna?
Non so. Anzi lo so: mancano dei bravi e preparati organizzatori.
- Su quali risorse ha fatto affidamento il vostro gruppo per vivere e continuare a fare teatro?
Duro, durissimo lavoro. Non stop. Zero contributi regionali. Miserrimi contributi provinciali. Vendita degli spettacoli e conduzione di laboratori teatrali.
- Ritenete di essere arrivati al traguardo o come ci si sentiva negli anni ’70 di essere sempre al punti di partenza?
La sensazione è quella di non essere nemmeno partiti! Abbiamo ancora tanto da dire.
Quanto agli anni ’70, beh, lì abbiamo vissuto il periodo d’oro, sicuramente. «L’età magica» la chiamava Titino Nivola, visto che frequentavamo l’asilo e le scuole elementari con buon profitto, in tutta tranquillità e circondati da tanto, tanto affetto. E senza nessuno che ci rompesse i c…ni.
- Cos’è il teatro politico?
Tutto il teatro è politico. Perché ogni atto della vita è politico, implica cioè delle scelte. Bisogna vedere se si ha consapevolezza o meno di questo elemento.
Io poi farei una distinzione fra «il» politico e «la» politica. Il primo è un ordine fondamentale della storia, del pensiero, di tutto quello che si fa. Non può non interessarmi, non posso non assumerlo. È la dimensione stessa del reale. La politica è un’altra cosa, «è il momento in cui il politico si converte in discorso scontato, in discorso della ripetizione.» (R. Barthes); mi annoia, è il regno della Doxa (del “senso comune”) e della routine, dell’ipocrisia, della mediocrità e della sopraffazione, delle urla, degli insulti. Non mi ci voglio immischiare. Non lo tollero più. Mi manca il pelo sullo stomaco.
Insomma: Gramsci sì; Bersani o Berlusconi o Vendola o Bossi (...ad nauseam) no.
Oppure la tua domanda si riferisce al teatro “militante” … ?
In una scena di teatro, tutto è segno. Quindi, chi fa teatro non può non porsi la questione del senso (che non coincide col significato). Bisogna assumersi delle responsabilità ma non per ridurre i significanti multipli in significati univoci. Ma per far sbocciare la polisemia. Almeno in teatro, col senso si deve giocare, altrimenti è la fine. Ecco perché l’arte, la poesia, il teatro sono i luoghi di una significazione felice. Alla scena spetta il compito di porre delle domande, alla sala quello di cercare le risposte (l’uscita, la chiamava Brecht).
Non sempre Rossolevante è stato all’altezza di questo compito…
- Il vostro può definirsi un teatro politico?
Politico sì (per quanto scritto qui sopra), militante no (forse solo in un caso: lo spettacolo sugli infortuni sul lavoro Giorni rubati – che il critico Gianfranco Capitta ha definito quasi di «agit prop»; ma anche in questo caso non salviamo niente e nessuno: datori di lavoro, operai, medici, falsi amici, mettiamo tutti sulla griglia, per mostrare che siamo tutti responsabili di questo dramma dalle proporzioni enormi).
Ci sono spettacoli poi che, oltre ad un valore poetico possiedono pure una sorta di valore d’uso. È sempre il caso di Giorni rubati, o di On the road… again? (del 2010) ma anche dell’ultima nostra produzione: Stop making sense, dove l’incontro con i corpi non conformi dei performer impegnati nello spettacolo produce, fra l’altre cose, una gioiosa liberazione e un vacillare dei pre-giudizi, costringendo lo spettatore a rivedere i pre-concetti che lo abitano. Forse è questo il motivo per cui in Sms è entrato pochissimo testo, perché spesso sono proprio le parole ad «essere delle esche che generano degli stereotipi mentali» (così R. Barthes in un’intervista del 1978). E dico questo non per romantico anti-intellettualismo, ma perché penso che sia necessario tenere alta la guardia contro la macchina parlante che ci divora la mente («Quanto mi piacerebbe poter togliere, come lo sdentato la dentiera che mette in un bicchiere d’acqua accanto al letto, togliere il mio cervello dalla sua scatola (…) e immergerlo in soluzioni rinfrescanti, mentre io dormirei come il bambino che non sarò mai più», così A. Cohen da noi citato nello spettacolo Redemption song).
Per spiegare cosa è il teatro per noi di Rossolevante, vorrei riportare il frammento di una lettera indirizzata ad un nostro attore in difficoltà, scritta alcuni mesi fa:
«(…) Viviamo in un tempo e in una società della frammentazione. Siamo atomi impazziti. Molti dei riferimenti che davano senso alle nostre esistenze sono saltati. Le grandi narrazioni di un tempo non ci vengono più in soccorso. Il nostro è un mondo complesso, disperso, sfumato, ramificato, attraversato da una molteplicità di pratiche. Incasinato, in parole molto povere. Un mondo “a-tonale” lo ha definito il filosofo Alain Badiou (nella musica atonale – in contrapposizione a quella tonale – ciascun compositore stabilisce da sé, autonomamente, le regole di un brano, allontanandosi dal sistema tonale…), un mondo mancante di un “punto”, di un cardine, di un asse che ci aiuti ad orientarci, a dare un ordine alle cose, a leggere il mondo, che ci permetta di prendere delle decisioni (“sì” o “no”) e in cui la molteplicità confusa sia ricondotta a dei principi.
Ora, il teatro può rappresentare questo “punto”, questo cardine. Io ho strutturato la mia intera esistenza intorno al mestiere teatrale. Cosa sarei senza il teatro, cosa rimarrebbe di me? Ben poco, te lo assicuro. (…) Ecco, credo che forse dovresti meditare sul fatto che anche per G. M. il teatro potrebbe rappresentare il “punto”. Quando il Sig. M. vuole avere ciò che gli spetta (…) cosa constata? Realizza la propria impotenza, è trattato come un numero, è sistematicamente ignorato – talvolta deriso. La sua voce si fa roca per la rabbia, ciò che gli spetterebbe per diritto prende le sembianze di un favore elargito. E come il Sig. M. siamo tutti quanti noi. Non contiamo un cazzo. Ma quando il Sig. M. sale sul palco non è più un numero. No. È qualcuno. È G. M. È forte – fortissimo – pare invincibile. Trasmette energia e speranza a chi lo sta a guardare. È un faro per molti. La sua voce non si confonde più con quel rumore di fondo che cancella le nostre quotidianità disperse. È la sua voce e tutti lo stanno a sentire. Il suo stesso handicap cambia di segno, trasformandosi in una abilità differente. Ti pare poco? Non sto esagerando.
E allora bisogna spingersi ancora più in là. E qui torna in campo la disciplina del fare teatrale. Per citare ancora Alain Badiou:
Abbiamo bisogno di una disciplina popolare. Direi anche che coloro che non hanno niente, hanno solo la loro disciplina. I poveri, coloro che non hanno mezzi finanziari e militari, coloro che non hanno potere, tutti costoro hanno la loro disciplina, la loro capacità di agire insieme. Questa disciplina è già una forma di organizzazione.
Nell’era dell’attuale permissivismo che funziona come una ideologia dominante è giunto il momento di riappropriarsi della disciplina. Insieme, venendoci in aiuto reciprocamente, possiamo tentare questa battaglia comune. Non ti sei forse tu stesso definito “un combattente”, uno che sta “in prima linea”…? Bene, bisogna starci sempre sulla linea del fronte, perché la lotta è durissima ma solo così può scaturire qualcosa per cui valga la pena di andare avanti. Dobbiamo agire insieme.
Non possiamo permetterci di “portare in giro la nostra esistenza” sciupandola “fino a farne una stucchevole estranea” – come diceva il poeta Kavafis. Dobbiamo concentrarci su ciò che ci pare essenziale.»
©aprile 2012, Juri Piroddi